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Qualche piccolo dettaglio legale


di HarrymetSally
25.04.2021    |    22.262    |    22 9.6
"Sapevo che stavo distruggendo per sempre ogni legame filiale, e questo mi faceva impazzire..."
Il giorno del divorzio dal mio primo marito fu il più felice della mia vita.
Fu anche il più umiliante, e come le due cose stiano assieme resta un mistero anche per me stessa.
Mi recai in tribunale verso le dieci. Indossavo un abito senza maniche, rosa con una fantasia a fiori, lungo appena sopra il ginocchio, e una giacca scura. Il mio avvocato mi aveva suggerito di non truccarmi, perché i giudici erano più benevoli con donne acqua e sapone. A quanto pare l’ostentazione della bellezza femminile risvegliava antichi retaggi patriarcali nelle nostre toghe, e non c’era ragione che apparissi puttana più del necessario. Passeggiavo nervosamente da circa un quarto d’ora quando finalmente lo vidi.
Non incontravo il mio ex marito da quasi tre anni, e fui sorpresa nel constatare quanto la separazione gli avesse fatto bene. Era tonico, muscoloso, il viso rinfrancato da una giovinezza che avevo visto lentamente sbiadire negli anni del nostro infelice matrimonio.
Sentii il cellulare vibrare nella borsetta.

Tutto ok?

Il mio nuovo compagno era molto apprensivo circa quell’incontro. Da un lato attendevamo con ansia il lasciapassare della Corte per ufficializzare al mondo intero il nostro amore, dall’altro sapeva quanto tormentata fosse stata la mia relazione, e conosceva alla perfezione gli strascichi e gli irrisolti che portavo ancora con me. Normale che fosse apprensivo.
Tutto a posto, non preoccuparti, lo rassicurai, e andai incontro al mio ex marito.
“Stai benissimo” esordii.
“Anche tu.” rispose, Mi elargì un breve abbraccio che fu quasi affettuoso.
Rimasi spiazzata. Negli anni, la violenza del nostro disprezzo reciproco si era smussata fino a sfociare in una civile indifferenza. Ci scrivevamo messaggi di auguri a Natale e ai compleanni, e l’anno passato eravamo giunti a scambiarci una telefonata in occasione delle Nozze d’Oro dei suoi genitori, ma certo non eravamo amici. Mi baciò su una guancia, permettendomi di assaporare la sua acqua di colonia sportiva.
“Dopo tanti anni, sono io che ti faccio aspettare, stavolta!” esclamò con un sorrisetto perfido sul volto perfettamente rasato.
“C’è una prima volta per tutto. E un’ultima” dissi.
L’udienza fu breve.
Un riassunto delle clausole, costellato da cenni di assenso a destra e a sinistra. Una breve chiosa del giudice, seguiti da un paio di firme, poi liberi tutti.

Ho finito. Ti raggiun_

Stavo digitando il mio primo messaggio da donna libera, quando mi sentii afferrare per un braccio.
Era lui. Fui irritata dalla perentorietà di quel gesto, come se accampasse ancora diritti su di me.
“Cosa c’è?”
Ritrasse istantaneamente la mano, con un sorriso che trasudava amichevolezza. “Scusa, non volevo spaventarti.”
“Non mi hai spaventata.”
Sono finiti i tempi in cui potevi spaventarmi, pensai.
“Sì, ovvio… cioè…”
Gli rivolsi un sorriso sprezzante. Dietro a quei modi da uomo di mondo era rimasto il ragazzino senza palle di un tempo. “Cosa vuoi?”
“Niente, solo mi chiedevo se ti andava di prendere un caffè. Ti rubo solo dieci minuti.”
“Ho una giornata piena, mi spiace.”
Mi voltai e feci per andarmene, ma sentii nuovamente la sua presa sul mio braccio. Mi guardai attorno. I due carabinieri di guardia all’ingresso avevano buttato un occhio nella nostra direzione, e uno dei due si era prodotto in uno sguardo duro, la mascella contratta che esprimeva disapprovazione e disponibilità ad agire.
“Hai finito?”
“Scusa, è che mio padre mi sta martellando con questa storia…”
“Quale storia?” domandai, esasperata, mentre mi divincolavo. Il carabiniere dalla mascella di ferro aveva mormorato qualcosa al collega, ed entrambi avevano mosso un passo nella nostra direzione.
Il mio ex-marito era l’ultimo rampollo di una famiglia della nobiltà sabauda. Erano decaduti, ma non abbastanza. Dell’antica gloria, conservavano gli stemmi araldici, qualche possedimento sparso per l’Italia e l’Austria, e una insopportabile spocchia che passava, come una malattia sessualmente trasmessa, di maschio in maschio.
Il mio ex-marito era l’unico discendente e non aveva avuto figli, pertanto forse almeno quella piaga era giunta all’epilogo.
“Niente, cavilli. Lo sai come è mio padre.”
Lo sapevo. Per un attimo, provai un moto di pena e umana comprensione per quella creatura troppo fragile, il cui ego frantumato non era mai stato in grado di opporre altro che ossequiosi inchini alle pretese del genitore. Negli anni ruggenti della sua carriera di imprenditore, Edoardo, il padre di Antonio, aveva schiantato famiglie e compagnie con maglio d’acciaio. Si mormorava che avesse speso almeno metà del patrimonio familiare in donne e gioco d’azzardo, ma io quel dragone non lo avevo mai incontrato. Avevo conosciuto invece un vecchio avvizzito e avaro, con un controllo paranoico su moglie e figli e una passione per le barzellette sporche raccontate attorno al tavolo, a conclusione delle cene di famiglia, davanti a un bicchiere di Averna.
Con me si era sempre dimostrato galantuomo impeccabile, ma io avevo covato negli anni un silenzioso astio per l’uomo che aveva rovinato la vita del figlio, e di riflesso la mia.
“Questo tizio le sta dando fastidio, signora?” Era mascella di ferro. Parlava con me, ma guardava Antonio, squadrandolo dall’alto del suo metro e novanta.
“Questo tizio è suo marito. Le spiacerebbe farsi gli affari suoi?” ribattè Antonio con una altezzosità che male ne celava la codardia. Riconobbi la tipica arroganza di famiglia, mai supportata dai fatti.
“Ex" precisai, "grazie, è tutto a posto. Stiamo solo chiudendo alcune vertenze.”
Il carabiniere mi rivolse un rispettoso cenno di saluto, scoccò uno sguardo ammonitore al mio ex-marito e si allontanò, seguito dal collega.
“Ti prego, lascia che ti offra un caffè e che ti spieghi tutto. Ci vorranno pochi minuti.”
La cosa va un po’ per le lunghe. Non preoccuparti.
Inviai il messaggio, e mi avviai seguendo Antonio che camminava con passo svelto e nervoso davanti a me.
“Hai preferenze?” chiese.
“Il primo che incontriamo andrà benissimo.” Avevo voglia di scrollarmi di dosso quella vicenda, e quella famiglia, il più presto possibile.
“Sempre fredda come il ghiaccio, eh?” disse stizzito, mentre si dirigeva verso il bar sull’altro lato della strada.
“Le ex-mogli sono calde solo nei filmini che ti piaceva guardare a tarda notte, quando dicevi che restavi su a lavorare.”
Mi pentii immediatamente di quella risposta. Non volevo riaprire le antiche ferite, e soprattutto non volevo avere una conversazione sui nostri trascorsi coniugali. Non desideravo essere sua moglie per un altro minuto, neppure nei ricordi.
“Touché” disse, mentre prendevamo posto in un tavolino d’angolo, seduti uno di fronte all’altra, “senti, non voglio litigare. Ti assicuro che non è una cosa da ex-marito, non cerco rivalse né vendette.”
“Lo spero” replicai “perché se apriamo il libro delle vendette non so chi di noi due ne esce più infangato .”
Ordinammo due caffè americani, che sorseggiammo fronteggiandoci con aria guardinga.
Inalai l’aroma caldo della miscela. Il caffè aveva sempre il potere di levigare le mie reazioni, rendendomi più morbida.
“Allora, cos’è questa storia dei cavilli?”
“Sai come è fatto mio padre, no? Quanto ci tiene alla famiglia…”
Soffocai la risposta che mi era salita alle labbra. Ci teneva così tanto che l’aveva praticamente devastata, fino a ritrovarsi con una moglie sotto psicofarmaci e un figlio pallemosce che a quarant’anni ancora si chiedeva cosa avrebbe fatto da grande.
“Il fatto è che, per come la vede lui, tu non hai solo tradito me, ma tutti noi.”
“Come la vede lui? E lui cosa cazzo c’entra?!” Alzai la voce.
Un paio di avventori mi rivolsero un’occhiata di disapprovazione. Era la seconda volta che attiravo l’attenzione quella mattina, e non nel modo in cui ero abituata.
“È mio padre. Ed è il capofamiglia.”
Mi sentivo intrappolata in una storia di Verga, in cui vecchi rugosi e onnipotenti manovravano i fili di giovani senza speranza.
“Quindi?”
“Nulla di grave, credimi. Non siamo qui per dare vita a una guerra. Si tratta solo di firmare alcune carte. Una sorta di dichiarazione.”
“Non ne ho appena firmata una?”
“Quella riguardava noi due, questa riguarda la famiglia.”
Lo squadrai con ostilità. “Non ti firmo nessuna dichiarazione.”
“Si tratta solo di qualche piccolo dettaglio legale, credimi” disse. Sembrava prossimo alle lacrime.
Mio malgrado, provai nuovamente quello struggente senso di pena per lui. Nonostante la svolta che la separazione prima, e il divorzio poi, avevano impresso alla sua vita, non ce l’aveva fatta. Non ce l’avrebbe mai fatta. Il potere di quella famiglia, e del suo patriarca, era come un buco nero, capace di attrarre ogni luce e farla scomparire. Qualunque scintilla fosse mai scaturita in quell’anima tormentata e precaria, era spenta da tempo.
“Va bene, tirala fuori e chiudiamo questa storia.”
“No” disse, grattandosi la testa per l’imbarazzo “è nel mio ufficio.”
Antonio aveva un piccolo studio legale davanti al tribunale. Lo aveva aperto poco dopo l’esame da avvocato, sperando di impressionare il padre. A quanto mi risultava, io e sua madre eravamo le uniche altre persone ad avervi messo piede. Il padre continuava a pagare l’affitto di quel luogo dimenticato. Per magnanimità e amore paterno, apparentemente, ma avevo sempre sospettato che fosse solamente la parte più morbida del giogo che gli aveva chiuso attorno al collo.
Pagammo i caffè. Insistette per offrire, la qual cosa mi parve paradossale, date le circostanze.
Attraversammo la strada e ci infilammo nel portone. Rivolsi un freddo saluto al custode che, come sempre, mi sorrideva allusivo. Ero una troia. Lo sapevano tutti, nei palazzi della famiglia.
Ci sedemmo nello studio deserto che puzzava di chiuso. Un vecchio lampadario in cristallo diffondeva una luce debole e giallognola, e la libreria semi-vuota in ciliegio aveva almeno due dita di polvere su ciascuno scaffale. Qualche scartoffia sparsa qua e là conferiva ancora una parvenza professionale a quello che era niente più che una triste versione per adulti di una cucina giocattolo. Lì era dove il piccolo Antonio giocava ai giochi dei grandi.
Mi sedetti dal lato della scrivania riservato ai clienti, mentre Antonio sedeva impettito sul suo trono di cartapesta.
Armeggiò con un cassetto, estraendone un foglio di carta con una scrittura fitta.
Lo presi dalla sua mano, senza dire nulla.
Cominciava con il mio nome e i dati anagrafici, inclusa la mia residenza aggiornata. Per qualche motivo, sentii che mi si accapponava la pelle, ma non dissi nulla. Continuai.

Io sottoscritta dichiaro con la presente di essere una lurida puttana.

Sollevai lo sguardo, sconvolta e furente.
“Cosa cazzo significa?!”
“Continua a leggere” disse con tono piatto. Di colpo la sua insicurezza, la sua indecisione e la sua fragilità sembravano sparite, sostituite da un ghigno predatorio.

Riconosco che le mie azioni hanno cagionato grave danno morale e patrimoniale…

“Tu sei fuori!” Mi alzai di scatto, accartocciando il foglio e scagliandoglielo contro. La pallottola di carta lo colpì in viso e rotolò sul pavimento, senza suscitare reazione.
Antonio raccolse il foglio con calma studiata, lo stirò con i palmi e me lo porse nuovamente, invitandomi a sedermi.
“Leggi, ti ho detto.”
Il resto del foglio era un delirio persecutorio e crudele su quanto la mia infedeltà avesse danneggiato la reputazione della famiglia.
Di seguito, venivano elencate le elargizioni che la famiglia aveva fatto, sotto forma di regali o altri beni, all’indirizzo mio e dei miei familiari. Erano citati viaggi, cene, gioielli.
Tutte cose che non avevo mai chiesto, e per le quali ero chiamata a rispondere.
Avrei potuto semplicemente farmi una risata e andarmene, ma qualcosa mi fermò. Conoscevo il padre di Antonio. Se aveva indotto il figlio a una mossa tanto diretta, aveva in mano qualcosa.
“Cosa ti fa pensare che firmerò un abominio simile?”
Tirò fuori qualcosa d’altro dal cassetto. Un plico alto quasi una spanna sul quale campeggiava l’etichetta La troia al lavoro.
“Vuoi aprirlo?” mi chiese.
Scossi il capo. Non ce n’era bisogno. Sapevo esattamente cosa c’era in quei fogli. Non mi vergognavo di chi ero, o di quello che facevo, ma essere messa a nudo davanti al mondo era qualcosa che neppure io potevo permettermi.
Cercai di controllarmi, e feci appello alla logica.
“Senti” cominciai “qui parlate di danno patrimoniale, ma poi fate cenno alla reputazione. A quale livello si colloca la vostra richiesta di risarcimento?”
Avevo un buon lavoro, e il mio uomo mi avrebbe aiutato. Se volevano soldi, avrei potuto venirne fuori. In fondo, anche se la famiglia di Antonio era ricca, lui se la passava piuttosto male. Forse paparino si era stufato di avere il rampollo con la faccia nella mangiatoia e aveva deciso di provvedere.
“Niente soldi” disse, dando un colpo di piccone alle mie speranze “tu ci hai umiliati. Mi hai umiliato.”
“Avevi detto nessuna rivalsa” tentai di difendermi.
“Non si tratta di rivalsa, ma di giustizia. Hai fatto la troia mentre mangiavi alla nostra tavola. Hai mentito, hai offeso. Hai rubato la mia dignità. Ora devi pagare. Ma, a differenza di te, sarò più benevolo. Tu mi hai umiliato di fronte al mondo. I miei colleghi, i miei amici, la mia famiglia, tutti sapevano quello che facevi e ridevano di me. Io invece ti umilierò qui, tra le mura di questa stanza. Quando avrò finito, entrambi usciremo di qui, e dimenticheremo tutto. Le nostre vite potranno ricominciare.”
Vidi le lacrime nei suoi occhi. Era la verità. La sua verità. Non avrebbe mai potuto andare avanti, finchè non avesse chiuso quel conto. Il senso di pena che provavo per lui dilagò come una marea.
Si alzò e mi porse la mano. Senza parlare, la presi e mi alzai in piedi di fronte a lui.
Si portò alle mie spalle, sfiorando il mio collo.
“Questa collana di perle… è tua?” chiese.
“Sì.”
“No. È mia” disse, e la sganciò. La soppesò per un attimo. Poi la mandò a frantumarsi sul pavimento.
Osservai le piccole biglie bianche rimbalzare e rotolare in ogni direzione, in una tintinnante cacofonia che risuonò nel silenzio come una sentenza.
Mi sentii accarezzare la schiena e i fianchi attraverso la sottile stoffa del vestito.
“Questo vestito di LiuJo. È tuo?”
“Ascolta, io…”
“Rispondi.”
“No” mi piegai a quel gioco.
“Infatti. È mio.”
Armeggiò per qualche istante con la cerniera, poi abbassò le spalline e lasciò cadere il vestito sul pavimento. Lo scalciò lontano.
Ero nuda. Soltanto un paio di autoreggenti e un perizoma si frapponevano fra me e l’imminente assalto sessuale.
Ero decisa a non guardarlo. Mi sarei lasciata fare tutto, pur di uscire di lì, ma non lo avrei guardato.
Mi sfiorò i seni nudi, facendo passare i capezzoli tra le dita. Come spesso mi accadeva, il mio corpo rispondeva alla carezza del maschio contro il mio volere. Sentii i seni gonfiarsi e i capezzoli farsi rossi e turgidi.
“Un attimo” lo fermai.
“Cosa c’è?”
“Come faccio a sapere che terrai fede agli impegni?”
“Non lo puoi sapere” tentò di fare come i duri dei film, ma non era né Sean Connery, né Michael Douglas.
“Niente affatto, tesoro. Senza garanzie io mi rivesto ed entrambi usciremo di qui senza quello che desideriamo. Sarà una tragedia, ma lo sarà per entrambi.”
Mi rivolse uno sguardo imbronciato. Si era ormai abituato all’idea di quella resa incondizionata, e la mia determinazione nel rovinargli il giochino lo esasperava.
“Ti metto una firma su un documento.”
“Benissimo. Preparalo.”
Rivolgendomi uno sguardo furente, si precipitò fuori dalla stanza.
“Non rivestirti!” urlò con una voce tenorile che lo faceva somigliare più a un bambino con un ginocchio sbucciato che a un uomo che stava per farsi la ex moglie.
Ho quasi fatto. Ti chiamo fra un’ora.
Inviai il messaggio. Oramai sapevo cosa mi aspettava, ed ero pronta ad attraversare quell’ordalia.
Estrassi dalla borsetta il mio rouge chanel e lo depositai sulle labbra, senza fretta.
Udivo il convulso battere sui tasti nella stanza attigua, poi l’ansimare della vecchia stampante.
Antonio tornò ad ampie, nervose falcate nell’ufficio, ove me ne stavo ritta in piedi, nuda fatta eccezione per uno slip inesistente e un paio di autoreggenti.
Mi porse il documento, redatto in perfetto legalese. Nel documento, rinunciava a qualunque azione legale o di altro genere, e si impegnava a distruggere copie e originali dei documenti in suo possesso.
“Vedo che hai messo il rossetto che adoro. Sarà una delizia togliermi le macchie rosse dall’uccello, dopo che mi avrai spompinato.”
Mi afferrò un seno e strizzò con forza, quasi a sottolineare la propria risolutezza.
“Prima devi firmarlo” dissi, calma.
Si portò alla scrivania, e afferrò la Mont Blanc nera, regalo di laurea del papà.
“Aspetta” lo fermai.
“Che c’è?!” Stava perdendo la pazienza.
“Sappiamo entrambi che un documento del genere non ha valore, senza testimoni che assistano all’atto della firma.”
“Stai scherzando.”
“Affatto” ribadii.
“E tu lasceresti che un estraneo assistesse a questo?”
“Perché no? Tu sei l’ultima persona che vorrei mi vedesse nuda. Chiunque venga, non potrà che essere il penultimo” sorrisi.
“Potrei prenderti qui, ora.”
“Direi che mi hai stuprata, e sarebbe la verità. Ah, ho due carabinieri pronti a testimoniare di averti visto aggressivo e violento, stamattina. Non hai fatto una buona impressione.”
Si fermò a pensare. Potevo quasi vedere la sua piccola bilancia interiore, sostituto di una coscienza avvizzita, soppesare le opzioni.
“Non saprei chi far venire, così su due piedi” disse quasi supplicandomi.
“Chiama tuo padre.”
Sgranò gli occhi, fissandomi a lungo per valutare la serietà delle mie intenzioni, poi sollevò il telefono.
Il vecchio non ci mise molto, era sempre stato rapidissimo a impicciarsi nelle faccende del figlio, e quella volta non fece eccezione.
Se fu sorpreso nel trovarmi nuda in mezzo alla stanza, non lo diede a vedere. Si tolse l’impermeabile e il cappello, appoggiandoli sulla libreria, e mi contemplò con compiacimento.
“Buongiorno” disse.
“È un piacere rivederla, a prescindere dalle circostanze.”
“Mio figlio mi ha reso edotto che avete raggiunto un accordo circa la vostra vertenza.”
“È così” confermai sorridendo.
L’anziano patriarca parve ammirato dal mio sangue freddo, e ricambiò il sorriso.
“La tua ex-moglie è una donna rimarchevole. Un peccato che tu l’abbia persa” disse al figlio con quella nota di benevolo disprezzo che mi era così familiare.
Prese posto sulla poltrona ove poco prima sedeva Antonio. Anche così, era alto quasi quanto lui. Il volto rugoso e aquilino era solcato da penetranti occhi neri che mi squadravano da sotto le folte sopracciglia. Incrociò le dita, in un gesto quasi rituale.
“Ho voluto che fosse presente anche lei, signor Edoardo, perché so che suo figlio non terrebbe fede agli accordi. Non esiste promessa che negli anni non abbia infranto” dissi.
“Una affermazione che non posso smentire, né confermare, non essendomi mai intromesso nella vostra intimità.”
Che faccia tosta! Dal giorno in cui avevo messo piede nella grande casa di famiglia avevo sentito il suo occhio vigile e prepotente su di me, su di noi. Stetti al gioco, comunque, e feci un cenno di assenso.
“Infatti, ma le chiedo di credermi sulla parola, per il beneficio di questo negoziato. Il fatto è che, per mantenere la parola data, occorre spina dorsale, e suo figlio non ne ha. Resisterebbe qualche mese, forse persino qualche anno, poi la tentazione diventerebbe troppo forte, e tenterebbe di ricattarmi ancora. Non posso permettermi di avere questo miserabile avvinghiato alla mia giugulare per sempre, lei capisce.”
Il vecchio annuì. Antonio era così eccitato da non rendersi conto di quanto quel cenno di assenso fosse umiliante per lui, o forse era così abituato a convivere col disprezzo del padre da non farci più caso.
“Per questo gli ho chiesto di chiamarla, perché anche lei è un miserabile, ma conosce il valore di un patto. Io so che, se lei dirà che abbiamo concluso, avremo concluso per sempre. Posso contare su questo?”
Edoardo annuì nuovamente, rispondendo con una smorfia di benevola noncuranza ai miei insulti. Si dice che i giullari potessero apertamente farsi beffe di re e regine, agghindati nei loro vestiti sgargianti. Io avevo la stessa libertà, solo che, per ottenerla, i vestiti avevo dovuto toglierli.
“Possiamo proseguire?” chiese, fissandomi negli occhi.
“Antonio deve firmare” dissi.
“Firma.”
Antonio si mosse solerte, come sempre faceva a fronte degli ordini del padre, poi mi si avvicinò. Si portò nuovamente alle mie spalle, cominciando ad accarezzare i capelli, la schiena e i miei seni nudi.
“Anche lei deve firmare, signor Edoardo.”
“Io?” sorrise, fingendosi perplesso.
“È lei il capofamiglia.”
“Quel che è giusto è giusto.”
Appose la sua firma sopra quella del figlio, lasciandosi andare a un sospiro.
Era il segnale che Antonio aspettava.
Scostò con surreale delicatezza la stoffa del perizoma, accarezzando dolcemente la mia fica. Mi sorpresi a pensare che raramente era stato così delicato, durante gli anni del matrimonio.
Sospirai, schiudendomi per lui. Il dito indice raggiunse il clitoride, cominciando a massaggiarlo con cerchi ampi e lenti.
“Sei bagnata” disse. Era vero.
“Sfilami il perizoma.”
Antonio eseguì in preda a una strana ebrezza. Mi lasciai spogliare e aprii nuovamente le gambe, lasciandomi percorrere dalle sue dita affamate.
Gemetti. E forse era piacere.
Sentivo la sua erezione contro le mie natiche. Era così difficile farglielo venire duro, quando rientrava curvo e grigio dal lavoro. Non oggi, però.
“Ti piace” mi sussurrò all’orecchio.
“Sì” dissi, e non stavo mentendo. Semplicemente, non era a lui che parlavo.
Per tutto il tempo, mentre Antonio si dava da fare su di me, avevo maturato la mia idea, lasciando che mi penetrasse come il più tenero degli amanti.
Quel giorno, in quello studio polveroso e inutile, avrei perso. Ma non avrei perso da sola.
“Sì, mi piace.”
“Lo sapevo” disse Antonio, masturbandomi furiosamente mentre con l’altra mano si slacciava goffamente i pantaloni. Si denudò della parte inferiore, grugnendo e scalciando per liberarsi dagli indumenti.
Mi spinse in avanti con foga, facendomi piegare sulla scrivania. In quella posizione, con le gambe spalancate e i palmi aperti sulla superficie lignea, potevo fronteggiare il vecchio, fissarlo nelle iridi nere.
“Un momento” dissi. Antonio si fermò, timoroso che qualche altro cavillo potesse sottrargli la ricompensa tanto agognata.
“Cosa c’è?” Non fu lui a parlare, ma il vecchio Edoardo. Mi guardava come a volermi carpire le risposte direttamente dal fondo degli occhi.
“Io riconosco di avere un debito nei confronti della famiglia” dissi.
“Ancora chiacchiere!” esclamò Antonio, lottando furiosamente per non perdere l’erezione.
Rimasi immobile, piegata a novanta gradi sulla scrivania, i palmi ben distesi a segnalare la mia resa e un sorriso sul volto, senza smettere di fissare Edoardo.
“Riconosco” proseguii “che le mie azioni sconsiderate vi hanno arrecato un danno, e voglio pagare il prezzo.”
“Una onorevole risoluzione” rispose il vecchio.
“Solo, voglio essere sicura di fare le cose giuste. Non voglio trovarmi, una volta uscita di qui, a dover rispondere di altre pendenze. Quindi vi chiedo di aiutarmi a ricapitolare.”
Fissai l’anziano patriarca, ricevendone in cambio un’occhiata sorniona. Sembrava quasi ammirato di come potessi condurre una conversazione con sereno equilibrio, mentre le mie carni restavano oscenamente esposte.
“Dunque, signor Edoardo, poco prima che lei arrivasse, suo figlio e io stavamo facendo un inventario dei beni per i quali richiedete la compensazione. Ora li elencherò per lei, in modo che possa darci il suo parere.”
Sempre piegata in avanti sulla scrivania, mi volsi a guardare Antonio, che con una mano mi arpionava il culo, quasi a voler affermare che l’ordine del giorno di quella singolare riunione non era cambiato.
“Dimmi, Antonio, quella collana in frantumi sul pavimento. È tua?” chiesi, innocua.
“Sì, cazzo!” urlò mentre continuava a masturbarsi.
“No. È di tuo padre.” Continuavo a fissare Edoardo, e mi parve di scorgere l’ombra di un sorriso affacciarsi sul volto raggrinzito.
“E il vestito? È tuo?” proseguii.
“Cosa caz…” Antonio strepitava con un registro sempre più infantile.
“Rispondi. È tuo?” intimai.
“Sì porca troia! È mio. È tutto mio!”
“No” dissi “è di tuo padre. L’anello di fidanzamento che mi regalasti? Tuo padre lo fece fare su misura dal suo gioielliere di fiducia. La casa che arredammo assieme? Andammo a firmare con tuo padre. La macchina che non mi lasciavi mai guidare? I viaggi che mi regalavi per scusarti delle volte che tornavi sbronzo? Tutta roba di tuo padre. Come ho detto, voglio saldare il mio debito, ma voglio essere certa di saldare alla persona giusta. Perciò ora le chiedo, signor Edoardo, di chi è questa fica?”
Il vecchio si alzò in piedi. Fece lentamente il giro attorno alla scrivania, spingendo il figlio da parte.
“È mia” disse.
Inarcai la schiena, offrendogli la piena vista dei miei orifizi indifesi, e mi voltai a guardarlo.
“Allora fottila. Fottila davanti a tuo figlio senza palle e chiudiamo questa storia.”
Si slacciò i pantaloni, calandoli sulle ginocchia, con movimenti ben più esperti ed efficienti di quelli del suo erede.
“Tua moglie è una donna che sa cosa vuole” disse, beffardo, rivolto al figlio.
Antonio era andato a sedersi in un angolo, con il cazzo ormai moscio e le lacrime che gli rigavano il viso.
Mi guardava, come supplicandomi di dire qualcosa che gli restituisse la sua ricompensa, o almeno la dignità. Gli sorrisi in silenzio, mentre il vecchio si sputava sulla mano e me la passava con rudezza tra le gambe. Non ne avrebbe avuto bisogno, perché ero fradicia, ma credo fosse un gesto diretto al figlio: guarda come mi chiavo la tua puttana.
Entrò in me, tutto in un’unica spinta decisa, e cominciò a pompare.
Sentivo i suoi coglioni flosci sbattere contro il mio culo a ogni spinta, e mi abbandonavo a un piacere perverso nel quale sadismo e masochismo erano intrecciati assieme in un amplesso inscindibile.
Di quella vendetta feroce ero al tempo stesso vittima, carnefice e lama insanguinata.
Il vecchio mi chiavava con tale furia che mi domandai se questo non fosse anche il giorno della sua fine, stroncato da un infarto mentre impartiva al figlio l’ultima lezione.
Le sue mani erano come tentacoli che giungevano ovunque, ora ad afferrarmi le natiche, ora a tormentare i miei capezzoli o stuzzicare il clitoride.
A differenza del figlio, sapeva chiavare una donna, e lo stava facendo meravigliosamente anche con me. Per una strana contorsione dell’anima, l’odio che da sempre provavo per lui non faceva che aumentare la mia eccitazione, come se nell’annientare me stessa sotto i colpi del suo cazzo poderoso, consumassi anche la mia vendetta, smascherando il suo desiderio. Sapevo che stavo distruggendo per sempre ogni legame filiale, e questo mi faceva impazzire.
Ero la dea Visnu, seduzione e distruzione incatenate assieme.
Mi lasciavo sbattere da Edoardo e sorridevo ad Antonio.
Urlai quando sentii il pollice del vecchio saggiarmi l’altro orifizio per poi penetrarlo con fermezza. Spinsi indietro il bacino, per offrirmi alle sue spinte e permettere al pollice calloso di penetrarmi a fondo.
Venni una prima volta.
Le ginocchia tremarono e cedettero di schianto. Sarei caduta in avanti se Edoardo non mi avesse sorretta, cingendomi fulmineamente la vita. Mi sentii protetta, in quell’abbraccio, mentre il suo cazzo non mi dava tregua.
Questa è la sua magia, pensai, farti sentire amato mentre si prende da te quello che vuole. Apparire tenero nell’atto stesso di umiliarti. L’incantesimo perverso che aveva devastato quella famiglia era dentro di me, ora, e mi faceva godere.
Per la prima volta, capii tutto.
Usando una forza insospettabile, mi aiutò a risollevarmi tenendomi in quel modo con un solo braccio, sistemandomi sotto di lui per poter continuare a scoparmi. Non si era fermato un solo istante, martellando e affondando con un crescendo fatto di pause sapienti e furiose rapsodie.
Sapeva accarezzarmi il clitoride con delicata maestria, se sentiva di voler accrescere la mia eccitazione, e sapeva afferrarmi con fermezza per la chioma rossa, facendomi sentire il suo guinzaglio quando necessario.
Era brutale, sporco e romantico, un amante perfetto.
Ammirai quella virilità sapiente, maturata in centinaia di amplessi consumati in camere di motel, all’insaputa della moglie. Dio, come ci sapeva fare!
Quando fu sazio della mia fica, Edoardo mi trascinò per i capelli, costringendomi in ginocchio. Mi schiaffeggiò le gote e le labbra con il cazzo. Tirai fuori la lingua per confermare la mia sottomissione. Mi fece leccare quel sesso lungo e sottile, poi me lo infilò in bocca, tenendomi ferma la testa e spingendo con forza.
Prese a carezzarmi il viso e i capelli con dolcezza, quando fu soddisfatto del modo in cui obbedivo.
“Succhia, troia. Bagnalo come si deve, lo dico per il tuo bene.”
Le mani avevano una tenerezza struggente, mentre le sue parole ruvide mi sferzavano.
Non avevo bisogno di spiegazioni per capire ciò che mi attendeva. Succhiai tutto ciò che mi venne chiesto di succhiare, gemendo e ansimando. Mi afferrai i seni, esibendoli al mio anziano padrone. Lui li schiaffeggiò con forza, poi mi fece voltare. Mi sistemai a quattro zampe sul pavimento, e portai una mano dietro di me, allargando le natiche per prepararmi. Le ginocchia mormorarono la loro protesta, sotto la pressione del duro marmo di Carrara, ma non vi feci caso. Mi voltai verso di lui, rivolgendogli un tacito invito a fare tutto ciò che desiderava.
Edoardo sputò di nuovo, una, due, tre volte. Mi spalmò la sua densa saliva e poi sistemò la cappella all’ingresso del mio culo. Diversamente da prima, fu delicato, prendendoselo poco a poco. Lo lasciai scivolare dentro di me senza quasi provare dolore.
Antonio piangeva, ed era come se le sue lacrime mi bagnassero, rendendomi disponibile a qualunque richiesta del patriarca. Mi alimentavo della sua sofferenza e offrivo all’odiato avversario tutta la sottomissione di cui ero capace.
“Non te l’eri mai fatto, il culo della tua mogliettina eh?” chiese il vecchio in un impeto di crudeltà verso quel figlio incompiuto, mentre continuava a fottermi dolcemente.
“No” disse tra i singhiozzi. Nemmeno in quel momento, al culmine dell’odio e dell’umiliazione, poteva evitare di rispondergli, di obbedire alla sua maestosità. Era il capofamiglia.
Il mio culo si apriva e si distendeva per lasciarlo entrare a piacimento, e mi sorpresi a pensare che persino quel distretto del mio corpo, solitamente così impervio e capriccioso, non osava sottrarsi al suo potere. Assecondavo le sue spinte con docili movimenti del bacino, cercandolo e accogliendolo. Se mai avevo provato dolore, era oramai seppellito sotto una intossicante coltre di piacere. Come una gatta in calore, miagolavo in preda a orgasmi ripetuti, ormai completamente succube di quel cazzo maestoso e del suo navigato proprietario.
Le sue spinte, dolci, profonde, perfettamente ritmate, erano una sinfonia di piacere.
“Sei proprio un bel giocattolino” mi sussurrò, scaricandomi i suoi ansiti rochi e densi nell’orecchio come una colata di sperma. Gli offrii la mia bocca, un po’ per farlo tacere, un po’ perché sapevo che il mio bacio era una coltellata nelle budella di Antonio, e volevo vederlo sanguinare ancora. Il vecchio mi invase con la sua lingua pregna di caffè e tabacco, e quell’ulteriore conquista rafforzò la sua orgogliosa determinazione. Mi spalancò le natiche con le mani e si addentrò in quelle profondità con la voracità di uno squalo che ha annusato il sangue.
Antonio se ne stava in un angolo, la testa tra le mani. Talora distoglieva lo sguardo, ma poi, spinto forse dalla torbida curiosità che ci spinge a rallentare quando passiamo di fianco a un incidente, riportava i suoi occhi su di noi. Guardava suo padre fottersi la donna che un tempo era stata sua, e in qualche angolo della sua mente forse si era incastrata una scheggia di eccitazione, perché il suo cazzo vibrava di tanto in tanto, quasi volesse scuotersi da quell’impotenza e reclamare una quota di quel bottino. Poi, però, tornava ad ammosciarsi, relegandolo a quel ruolo di spettatore piagnucoloso che era sempre stato il suo. Di nuovo sentii quel piacere vendicativo scorrermi tra le cosce, rendendomi sempre più schiava di Edoardo.
Eppure sarebbe bastato poco. Un cenno d’intesa, e padre e figlio avrebbero potuto spartirsi la mia carne a piacere. Cosa avrei potuto opporre, a quel punto? Invece rimasero lì, ognuno prigioniero del proprio destino, un padre che sapeva solo vincere e un figlio troppo abituato a perdere.
Nel mezzo, io, trofeo e giudice di quella sfida impari, ordigno sganciato sulle macerie di quell’amore in rovina, con il solo scopo di spazzarlo via una volta per tutte.
Muoia Sansone con tutti i filistei, pensai. Scoppiai a ridere. Risi forte, mentre il vecchio mi spaccava in due. Edoardo ansimava, Antonio piangeva e io ridevo. Per un attimo, fui ipnotizzata da quello strano concerto, poi la mano di Edoardo si strinse sui miei capelli, premendo la mia faccia sul pavimento.
“Sta’ zitta, puttanella! Statti buona e zitta.”
Rimasi lì, buona e zitta, a eccezione dei gemiti di piacere che il cazzo di Edoardo, mio malgrado, mi strappava. Edoardo mi afferrò entrambi i polsi, portandoli dietro la mia schiena e serrandoli nella morsa della sua mano. Ero sua prigioniera.
Le braccia bloccate dietro la schiena e il viso premuto contro il freddo marmo delle piastrelle, potevo solo attendere che il patriarca portasse a termine quella danza sacrificale. Era ben diverso dal vecchio stanco e sornione che avevo conosciuto. Possedeva un’energia inesauribile, alimentata dalla sete di dominio che lo portava ad affondare dentro di me con voluttà, sotto lo sguardo disperato del figlio.
Continuò finchè ne ebbe voglia. Possedeva un tale controllo, una tale padronanza, che avrebbe potuto scoparmi per ore. Semplicemente, decise che era abbastanza. Aveva sempre avuto uno squisito senso della misura.
Venne dentro di me. Avvertii il suo fiotto denso arrivarmi in fondo alle viscere e risposi con un ultimo, definitivo orgasmo. Mi afflosciai sul tappeto, trascinando il vecchio con me.
Restammo così per qualche minuto, e fummo quasi amanti, l’incanto rotto solamente dai singhiozzi di Antonio. Edoardo mi guardò con una sorta di perfida tenerezza, e sorrise. Aveva sempre saputo, dal momento in cui si era tolto il soprabito, che quello sarebbe stato l’inevitabile epilogo del nostro piccolo dramma. Lo compresi mentre scrutavo quegli occhi neri senza fondo, e capii anche che per lui era normale. Non era affatto strano, secondo i suoi parametri morali, esercitare quella ius primae noctis rovesciata.
Ricambiai il sorriso.
Il rito era terminato, il sacrificio compiuto. Il conto era saldato. Avevo pagato il mio debito, e al tempo stesso avevo distrutto per sempre la famiglia che odiavo.
Avevo perso. Avevo vinto.
Edoardo si staccò da me, e cominciò a rivestirsi.
Mi volsi a fissarlo.
“Abbiamo concluso?”
“Sì. Abbiamo concluso.” Uscì, trascinando Antonio dietro di sé.
Strisciai sul pavimento, e mi aggrappai alla scrivania. Ero devastata. Mi issai in piedi, raccolsi la borsa e vi infilai il foglio firmato.
Recuperai il cellulare.

Ho finito. Per sempre. Ti raggiungo.
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